I pastori

I pastori della Majella

Io pascevo la mandra alla montagna,
alla montagna debbo ritornare.
(G. d'Annunzio, "La figlia di Iorio" Atto I, Scena II)

Se immaginiamo un pastore non lo vediamo mentre bada al proprio gregge sui pascoli del Tavoliere. Non pensiamo alle sue interminabili giornate passate sulle aride distese invernali, o nel casone della posta pugliese. Nella stessa transumanza risalta prevalentemente il fatto che il pastore lascia la montagna e il pastore torna alla montagna. Il pastore appartiene alla montagna, è una presenza che non può essere scissa da essa, anche se la sua esistenza si divide equamente fra il monte ed il piano. Per la maggior parte di loro la montagna rappresentava il ritorno a casa, anche se poche erano le notti che i pastori passavano nel loro letto; ma era comunque il ritorno, durante il quale essi curavano le angosce e i dubbi che nascevano nella lontananza.
In molte poesie i nostri pastori-poeti parlano dell'amore lontano. Francesco Giuliani riporta nei suoi quaderni (Giuliani,1992) due poesie sulla partenza del pastore ed entrambe terminano con un riferimento alla fedeltà della donna amata:

a)..............................................
Quando ritorno ti farò mia sposa
Se con un novo amor non mi hai tradito.

b)..............................................
Io sarò lieto e felice
se fedel ti troverò.

In una poesia popolare tradotta dal dialetto da Francesco Bruni (Bruni, 2000) troviamo in fondo la stessa preoccupazione parlando delle insidie a cui erano esposte le mogli dei pastori:

............................................
a chiunque le ciglia,
che fanno altrui tremar di maraviglia,
osa fisar di lei, o dirle verbo
che a l'onestate sua sapesse acerbo.

Non tutti avevano la fortuna di tornare sulle montagne natie e solo in tal caso potevano tornare periodicamente a casa. In genere avevano dei turni di riposo di tre giorni ogni quindici passati allo stazzo (quindicina). Il locato, l'affittuario di una locazione, cioè di una posta che comprendeva il pascolo e i ricoveri per le greggi e i pastori, comperava le erbe estive preferibilmente nel paese di origine, ma non sempre ciò era possibile. Vediamo pertanto che dopo una brevissima sosta in famiglia il pastore era costretto a ripartire per dei lontani pascoli estivi. Nessun documento d'archivio racconta questa sofferenza; possiamo solamente cercare di immaginarla e in qualche caso leggerla incisa sulle rocce.



Soprattutto sulla Maiella troviamo incisioni un po' ovunque, ma vi sono zone, molto circoscritte, di particolare concentrazione: punti nevralgici nella rete dei sentieri, luoghi dominanti su una o più vallate, o semplici punti di sosta sui pascoli. Alcuni di questi luoghi sembrano rivestire una particolare importanza. E' come se la società pastorale avesse tacitamente stabilito di farne un santuario e per secoli continuasse ad incidere scritte sulle stesse rocce, sovrapponendole a volte a quelle più antiche.
Sulle rocce della Majella troviamo più di 300 anni di storia dei nostri pastori. E' una storia di poveri, della loro solitudine e sofferenza: li scopriamo ad imprecare contro la "malidetta" e la "discrata" montagna, o a gioire per la partenza imminente e incidono croci, il mostruoso bestiario dei capitelli e degli amboni delle chiese del proprio paese, la grande nave vista forse dal tratturo del mare, la casa lontana e tanti nomi, date e paesi di provenienza. In queste incisioni possiamo ancora sentire le voci di un antichissimo mondo che è appena scomparso.



In alcuni casi troviamo brevi frasi composte di poche parole che esprimono la solitudine e la disperazione per una esistenza così dura. Non a caso sono incise in prevalenza nelle zone più impervie ed isolate della montagna ed in particolare nella Rava del Diavolo. In questo antico circo glaciale molti nomi sono seguiti dalle parole “più” o “mai più” e da frasi dalle quali si capisce che la montagna viene considerata alla stregua di una prigione: “..... se vado libero...”, “....se me la salvo....”. Per i pochi escursionisti che la conoscono, la Rava del Diavolo è uno dei luoghi più belli e selvaggi della Majella, ma si può comprendere lo stato d’animo del pastore costretto a trascorrere lunghi mesi in un ambiente così severo. Già il nome preannuncia l’atmosfera di mistero che regna nella valle; forse è proprio questa atmosfera che ha fatto nascere una leggenda di cui troviamo eco in una incisione: “Figli vi lassi a dire che prima di endrare nella camera ripenzateci”. Nella leggenda si parla di un tesoro nascosto in una grotta della Rava del Diavolo. Un raggio di luce, il 15 di Agosto, indica esattamente il luogo dove è sepolto il tesoro, ma bisogna affrettarsi, poiché, una volta preso il tesoro, la grotta si chiuderà per sempre.


La maggior parte di queste incisioni è stata fatta dai pastori delle aziende transumanti che occupavano i pascoli alti della montagna, mentre la zona bassa, vicina ai paesi di fondovalle, era riservata ai pastori locali che pagavano la fida ai propri Comuni .
Per il pastore era naturale lasciare la testimonianza della sua permanenza in luoghi lontani dal proprio paese, ma non lo avrebbe mai fatto, per una forma di pudore, sulle rocce della montagna natia, lungo i sentieri percorsi dai suoi paesani. Ed infatti sono pochi i nomi dei pastori locali, nonostante fossero numerosissimi coloro che praticavano la monticazione.
La maggior parte dei locati che acquistavano le erbe della Majella provenivano dai ricchi paesi degli Altipiani Maggiori: Roccaraso, Pescocostanzo, Rivisondoli, Campo di Giove. Per i pastori delle loro aziende, pur se abitavano alle falde del massiccio, andare per esempio alla Majelletta o alla Rava del Diavolo equivaleva a stare lontani da casa: ore ed ore di cammino, praticamente l’intera montagna, li dividevano dalla propria famiglia. Per quelli che venivano da più lontano, dai paesi del Gran Sasso, la lontananza doveva essere ancora più sentita. Non solo per la maggiore distanza che li separava dalle proprie case, ma per la vista che spaziava sulle loro montagne e in alcuni casi sui paesi natii.

Pennapiedimonte-Stazzo del Faggio
Oltre ai pastori transumanti che occupavano le grotte nella parte più alta delle valli e alcuni stazzi in pietra a secco costruiti sui pascoli, gran parte della presenza pastorale sul massiccio era costituita da coloro che praticavano la monticazione partendo dai paesi situati alla base delle valli. Secondo alcuni dati dei primi del 1800, da un sommario calcolo degli aniti dati in affitto dai comuni pedemontani della Majella e pertanto del numero di ovini transumanti che vi potevano pascolare, riscontriamo che non vi è grande differenza con il numero di ovini stanziali posseduti dai locali. Quello della monticazione in grotta costituisce il fenomeno più antico e più importante di questa montagna ed ancor oggi rappresenta, con i pochi pastori che ancora la praticano, un relitto antropologico di estremo interesse.
Possiamo far risalire l’origine della monticazione alle tribù appenniniche, pertanto alla metà circa del secondo millennio.
“L’economia mista appenninica, nella quale la pastorizia ebbe sempre un ruolo non trascurabile, deve necessariamente aver portato alla costituzione di aree territoriali di proprietà di alcune comunità, nelle quali aveva luogo la transumanza stagionale necessaria per la nutrizione delle greggi, con la conseguente concentrazione di stanziamenti fissi, oppure occasionali, spesso quest’ultimi all’aperto o nelle grotte.
Non dunque migrazioni come pensava il Puglisi dall’Emilia alle Marche e dall’Abruzzo in Puglia o lungo il versante laziale, ma spostamenti di minore entità da monte a valle e viceversa, in territori di limitata estensione, sufficienti al sostentamento degli animali e che diventarono nello stesso tempo proprietà dei gruppi che li frequentavano offrendo così una maggiore garanzia per le greggi.
I grandi movimenti, le transumanze in terre lontane, ebbero origine in un momento più tardo, di pochi secoli antecedente l’affermarsi della civiltà romana, allorché, con l’urbanizzazione lungo la costa, era necessario spostare gli animali in zone che potevano offrire un sufficiente pascolo senza danno al luogo da parte delle greggi”. (Radmilli 1977, p. 388).
Ma non si può escludere per la monticazione un’origine più antica. Recenti indagini archeologiche sugli Altipiani Maggiori d’Abruzzo hanno messo in evidenza il legame esistente fra alcuni siti neolitici di alta montagna ed altri siti posti a quote minori, ai margini di un bacino lacustre. Le distanze fra queste stazioni non superano i 60 chilometri. Si è ipotizzato pertanto uno spostamento stagionale di pastori con i loro greggi. (Lubell-Mussi, 1995).
Fino a qualche decennio fa ogni vallone della Majella costituiva un microcosmo densamente popolato di uomini, pecore e cani, con tutti i problemi che tale affollamento creava: sconfinamenti sui pascoli altrui, corsa all'occupazione delle grotte migliori, liti e vecchi rancori fra famiglie portati su dal paese insieme al gregge e alle poche masserizie.


Pennapiedimonte-La Ruttilicchie
Dopo il duro inverno, durante il quale le pecore stanziali, a piccoli gruppi, si accontentavano di poco brucando sulle stoppie e sui terreni esenti da coltivazioni, in terreni pietrosi abbandonati, lungo le siepi e gli argini delle strade, i valloni della Majella si popolavano di pecore e pastori che lentamente rioccupavano le antiche grotte seguendo quasi il ritiro delle nevi. La salita ai pascoli alti iniziava nel mese di maggio, con l'occupazione delle grotte più vicine ai paesi, e terminava verso la fine di giugno, quando le greggi raggiungevano le sedi stabili, le grotte più alte vicine ai pascoli estivi. Qui avrebbero trascorso almeno due o tre mesi fino a quando i primi freddi non avessero consigliato loro il ritorno in paese.
Tutti le valli della Majella erano interessate un tempo da questo fenomeno e due di queste hanno conservato fino ad oggi alcuni esempi di vita pastorale in grotta: la Valle di Pennapiedimonte e la Valle di Fara S. Martino. Alcuni pastori con le loro greggi compiono l'antico tragitto occupando alcune grotte in funzione della crescita delle erbe primaverili.
Le grotte più vicine ai paesi ( dai 500 ai 1000 metri di quota) sono molto curate e chiuse da alte mura a secco: ciò è dovuto al fatto che il pastore torna ogni sera alla propria abitazione ed è pertanto necessario proteggere il gregge lasciato incustodito. Al di sopra del muro viene realizzata una coronatura con rami di pino mugo o ginepro per rendere ancora più difficile l'ingresso ai predatori. Nel ricovero ovviamente manca la zona adibita a giaciglio per il pastore ed anche il focolare è piuttosto raro: il latte della mungitura viene portato giù in paese. L'ingresso allo stazzo è minuscolo, chiuso spesso da un cancelletto realizzato con rami intrecciati. Le mura a secco sono a volte aggettanti verso l'interno e realizzano quasi la completa chiusura del riparo. In alcuni casi lo spazio terminale viene chiuso da larghi lastroni obliqui che si appoggiano alla parete rocciosa.

Lettopalena-Vallone di Izzo
Nelle grotte della parte centrale delle valli (dai 1000 ai 1500 metri di quota), ad una distanza dal paese che permette il rientro con alcune ore di cammino, si comincia a notare la presenza di un sommario giaciglio e di un focolare ricavati nello stesso recinto dello stazzo. Le mura rimangono sempre di spessore ed altezza considerevoli, ma i segni di una permanenza fissa del pastore sono piuttosto scarsi. Quando il pastore non scende a valle è facile per i familiari raggiungerlo periodicamente per portargli le provviste e ritirare i formaggi.
Nelle grotte più alte (dai 1500 ai 2500 metri di quota), quelle che si aprono immediatamente al di sotto degli ampi pascoli estivi, la tipologia di chiusura del riparo cambia bruscamente. Basse mura a secco fatte con poca cura sostengono recinti in rete o in rami di pino mugo. Nelle grotte che presentano una buona abitabilità il recinto per gli animali occupa la parte più interna ed è chiuso da una semplice rete. In questi casi la difesa del gregge è lasciata alla prontezza del pastore e dei suoi cani. Vicino al recinto, ma al di fuori di esso, si trova un piccolo ambiente costruito in pietra a secco nella parte più asciutta del riparo: le mura raggiungono spesso la volta rocciosa realizzando la completa chiusura dell'angusto abituro. All'interno troviamo una lettiera fatta con tronchi e rami di pino mugo e vicino a l'ingresso un focolare. Le poche suppellettili del pastore sono custodite in nicchie scavate nella roccia, o appese a rami incastrati.
Grotta Canosa 2604 m
Il segno più evidente lasciatoci da millenni di pastorizia è rappresentato dai sentieri. Tutta la montagna è segnata da una incredibile rete di sentieri che collega fra loro grotte, sorgenti, pascoli e i paesi di fondovalle. I sentieri pastorali divengono sempre più piccoli man mano che ci si eleva con la quota. Dai bracci e dai tratturelli che raccolgono le greggi di una intera zona si dipartono sentieri minori che a loro volta si ramificano in modo capillare fin dove esiste la possibilità di pascolo: spesso rimane solo un sottile solco a segnare la via che gli animali percorrono in fila indiana. Accade spesso di osservare labili tracce di sentiero che tagliano ripidissimi pendii, ma anche nei sentieri più lontani ed impervi possiamo scorgere l'opera del pastore: pericolosi passaggi su rocce inclinate vengono spesso incavati creando una stretta cengia o piccoli appoggi per i piedi; contrafforti in pietra a secco sono costruiti per superare punti esposti; poche pietre poste le une sulle altre servono per superare un piccolo salto di roccia.
I sentieri percorsi dai pochi pastori superstiti recano i segni del tempo nelle rocce levigate dai passi, nelle pietre piatte corrose dal sale, nei grandi tronchi dei vecchi pini mughi recisi per il fuoco, o per chiudere lo stazzo. Ogni tanto dal sentiero si distaccano piccole tracce, appena visibili, che scendono giù fra rocce e cespugli perdendosi in chissà quale anfratto, raggiungendo forse una sorgente nascosta, o tornando nuovamente sul sentiero. E quando sembra che la traccia si interrompa fra pareti di roccia e che non sia più possibile proseguire ecco un lungo tronco con corti monconi di rami, appoggiato alla parete: una rozza scala per superare pochi metri di dislivello e riprendere una traccia di sentiero.
Ma poche di queste vie sono ancora aperte. A volte, dopo un inizio invitante, ci si ritrova a camminare sui rami, o a strisciare sotto di essi. Molti di quei brevi passaggi un tempo attrezzati per superare ripidi valloncelli e zone particolarmente esposte ora senza le cure stagionali sono completamente in rovina (Micati, 2000, p. 15).
Millenni di vita pastorale, tramandata in storie e leggende, testimoniata da incisioni, grotte e sentieri, costituiscono un grande museo, ma l'ambiente che lo ospita, per le dure condizioni climatiche cui è soggetto, subisce rapide trasformazioni: fra alcuni decenni la magnifica incisione seicentesca dell'aquila bicipite rinvenuta nella valle dell'Orfento sarà appena visibile (Micati 2000, p. 147). E' di estrema importanza documentare quanto rimane di questo mondo che va scomparendo.


I pastori degli altipiani *
Quanto rimane dei ricoveri pastorali sulla montagna abruzzese è ben poca cosa se paragonato al numero di ovini un tempo transumanti ed al lunghissimo arco di tempo interessato da queste migrazioni stagionali.

Grancia di S. Maria del Monte
 Vi sono, è vero, alcune grandi masserie che costituivano il centro di grosse aziende armentizie e che ancor oggi parlano con le loro mura dirute dell'antica prosperità, ma sui pascoli rimanevano soprattutto i circoli scuri dei recinti e gli scheletri delle minuscole capanne di rami che si sarebbero disfatti nel corso dell'inverno.


Campo Imperatore-Ricovero pastorale
Il De Marchi nella sua ormai notissima descrizione del Piano di Campo Imperatore ci dà una conferma della precarietà degli stazzi presenti: ...Quando i pastori vi sono con gli animali à pascolare par esser'uno essercito grossissimo à vedere tante capanne e tante tende, massime la sera quando tutte anno acceso i Fuochi;... ...Qui in tempo della state si vede tante Capane de Pastori e tanti Iaci di Rede et More de Pecore e Capre e Cavalli, che pare un essercito grendissimo da vedere da lontano....
Tracce poco più evidenti hanno lasciato gli allevatori stanziali che praticavano la monticazione ed erano più legati a luoghi fissi anche perché a volte associavano all'allevamento una magra agricoltura di montagna. Per essi la piccola casetta in muratura, la capanna, o il complesso in pietra a secco, la grotta scavata nel tenero conglomerato ed il riparo sotto roccia chiuso con pietre e rami rappresentarono l'abitazione estiva: il quotidiano o saltuario ritorno in paese da questi luoghi dipendeva esclusivamente dalla distanza e dal grado di sicurezza che si aveva nel lasciare il bestiame incustodito anche se rinserrato nel ricovero.
Le caratteristiche del luogo ed i materiali di cui si poteva disporre determinavano la scelta dell’abitazione stagionale. Certamente la presenza di ricoveri naturali quali grotte, o anche semplici ripari sotto roccia, non poneva dubbi sulle scelte, in quanto bastava realizzare solo alcune sommarie opere di chiusura per renderle abitabili.

Le capanne
Sui pascoli degli altipiani le tipologie costruttive dei recinti e dei ricoveri rimangono immutate per oltre mille anni e solo negli ultimi tre secoli troviamo dei cambiamenti dovuti soprattutto ad una più moderna organizzazione dell'azienda armentizia. I ricoveri avevano delle basi in pietra a secco e una copertura lignea, in tavole di faggio o fascine, alla quale si sovrapponevano zolle erbose.


Prati di Tivo-Cartolina anni '50
La capanna circolare con pseudo cupola, come appare da alcune testimonianze, è giunta sui nostri pascoli in un secondo tempo, verso la metà dell’Ottocento. Questa tipologia rappresenta comunque una percentuale minima: essa è legata principalmente al mondo agricolo.
Le capanne in pietra, su basi rettangolari o quadrate, potevano essere coperte da un tetto ligneo a due falde o ad una sola falda. Nel primo caso il muro a secco si alzava a definire l'inclinazione delle falde. Nelle capanne più piccole e poste su pendio si realizzava anche il tetto ad una sola falda, con lieve pendenza verso l'ingresso. In entrambe le tipologie si tendeva sempre ad interrare parzialmente la capanna o ad appoggiarla alle rocce per un maggiore isolamento dell'abituro e per un notevole risparmio di lavoro nella costruzione del muro a secco.



Campo Imperatore-Capanna pastorale

I recinti
I recinti fissi sono le uniche opere di cui rimangono testimonianze evidenti. Le tipologie costruttive dei recinti in pietra a secco possono essere legate a dei periodi abbastanza precisi. Sommariamente possiamo distinguere quattro tipi di recinti in pietra a secco:
Recinti di forme varie: sono i più numerosi e i più antichi. La forma dei recinti è la più varia poiché le mura si adattano alla morfologia del terreno appoggiandosi a piccole pareti, inglobando nel perimetro i grandi massi presenti, cercando di sfruttare ogni asperità per proteggere il gregge.



Feudo di Chiarano-Stazzo Mantruccie
Recinti quadrangolari chiusi: i recinti di questo tipo, eccetto rari casi, si trovano negli stazzi ove sono presenti le casette. Sono pertanto legati ad una più moderna organizzazione dello stazzo, riferibile ai primi decenni del secolo scorso. Nella fattura in pietra a secco dei recinti si nota una mano diversa. Non vediamo più un accumulo sommario di pietre fatto dal pastore, ma mura costruite, probabilmente da maestranze specializzate, per resistere al tempo.


Stazzo la Rapina
Recinti quadrangolari a pettine: sono simili ai precedenti recinti sia nelle dimensioni dei settori, sia nella realizzazione dei muri a secco. Mancano del lato a valle assumendo in tal modo la forma di un pettine. Le aperture a valle venivano chiuse da pali e reti.

Feudo di Chiarano-Stazzo Pantaniello

Mungitoi circolari: questi recinti circolari in pietra a secco avevano solo la funzione di mungitoi e si trovano tutti negli stazzi dove sono presenti i recinti quadrangolari, dei quali rispecchiano il buon livello costruttivo.


Rivisondoli-Stazzo Crete rosse
*Questo lavoro non è stato ancora pubblicato. Comprende due ricerche distinte:
   Siti pastorali degli Altipiani Maggiori
   Siti pastorali di Campo Imperatore